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O.N.L.U.S. - centro di studi e documentazione sull'eutanasia
EUTANASIA E' DECIDERE PER SE STESSI


CASO
MARA TANI
«Non volevo che la mia Mara soffrisse ancora. Ma forse solo chi convive con una persona malata di Alzheimer può capire un gesto così estremo».
La voce è ferma e s’incrina solo quando ricorda il pomeriggio del primo dicembre 2007. Mara Tani, consumata da 12 anni di malattia, era ricoverata all’ospedale di Prato quando arrivò la sentenza dei medici: ne avrà forse ancora per due ore, due giorni e, chissà, forse due mesi.
«Non potevo lasciarla soffrire»
«L’Alzheimer si era presa ormai mia moglie, che era ridotta a un mucchietto di carne e ossa: pesava appena 40 chili — racconta Bini — ma la prognosi dei dottori mi sconvolse. Non esitai: misi in una borsa lo spazzolino, due asciugamani e una pistola e presi un taxi per l’ospedale. Guardai mia moglie per l’ultima volta, le coprii con due asciugamani il viso e il petto perché non venissero deturpati dai colpi di pistola. Poi sparai. Uno, due, tre volte, finché capì che era finita». Bini parla veloce mentre le mani tormentano un fazzoletto: «Ho perso lei e ho perso tutto. Ma non potevo essere così egoista da lasciarla ancora soffrire. Sapevo di aver commesso un reato: per questo mi costituii».

Il processo A distanza di quasi 8 anni, il 5 maggio scorso si è aperto il processo per omicidio volontario in corte d’Assise, a Firenze. Bini, difeso dall’avvocato Lapo Bechelli, non si è presentato in aula. Parlerà in una delle prossime udienze.
«Mara è stato l’amore della mia vita — confessa — Era una donna solare e intelligente. Era lei ad amministrare lo stipendio e a organizzare l’esistenza della famiglia. Per 50 anni e 4 mesi, abbiamo condiviso progetti, gioie e dolori, finché l’Alzheimer non me l’ha portata via».

La storia I primi segnali della malattia nel ‘95. Mara cominciò a perdere la memoria a 66 anni.
«All’inizio erano dimenticanze da poco: il nome di un amico o quello di un utensile da cucina. Poi la situazione precipitò. Un giorno nel nostro appartamento di via Baracca decise di fare piazza pulita dei libri vecchi. Da un sacco spuntava un abbecedario del ‘36, cimelio della mia seconda elementare. Sapeva che di quel libro non mi ero mai liberato perché era il mio passato. Ma lei, confusa e avvilita, confessò di non ricordare nulla di quel testo. E ancora peggio andò quando accolse il parroco in salotto, svolgendo un rotolo di carta igienica».
L’Alzheimer aveva già annientato la mente di Mara, cancellando volti e nomi dei figli. E divorò lentamente anche il suo corpo, fino alla sedia a rotelle. «Non volevo l’aiuto di nessuno, nemmeno dei figli.
D’altra parte — racconta Bini — non potevo pretendere nulla dai miei ragazzi che erano assorbiti dal lavoro e dalle loro famiglie». Si rivolse ai servizi sociali («Ma l’assistente disse che sarebbe venuta un’ora la settimana come dama di compagnia») poi le badanti: «Tre ucraine accudirono mia moglie, ma nessuna sopportò il peso. Così ero io a lavarla, a imboccarle un cucchiaio di brodo e i bignè alla crema di cui era golosa».

«Quel vuoto nel suo sguardo»
Tutti i giorni facevano la spesa all’Esselunga in via di Novoli: l’ascensore non c’era e così toccava a lui trasportare la carrozzina, prendere Mara tra le braccia e scendere le due rampe di scale che li separavano dall’androne. Non c’era più orario per pranzo e cena, ma l’appuntamento era sempre in cucina. «Seduti al tavolo imboccavo Mara e spiluccavo la carne in scatola, mentre le raccontavo frammenti della nostra storia d’amore, il primo incontro, la nascita dei nostri figli. E lei, a volte, smetteva di guardare nel vuoto e si illuminava incrociando il mio sguardo. Erano attimi, poi tornava ad estraniarsi».

Il ricovero e la fine
Mara urlava, apparentemente senza motivo, si riconciliava con il mondo seduta alla poltrona, con i suoi «cenci»: «Stirava i pezzi di stoffa con le mani e li infilava in una borsa. Poi, la svuotava e ricominciava da capo». La vita correva ma nell’appartamento di via Baracca il tempo sembrava essersi fermato. «Non vedevo più gli amici, non giocavo a tennis, ma non mi pesava perché ogni gesto era dedicato a lei», racconta Vitangelo, milanese di nascita con un passato da campione di lotta greco romana, calciante Azzurro e la passione per karate e immersioni subacquee. La fatica non lo ha mai spaventato: sarà per l’infanzia trascorsa al seguito della madre, costretta a spostarsi per lavoro da Milano a Venezia fino a Salerno prima di approdare a Firenze. Ma non immaginava di dover affrontare quasi in totale solitudine la malattia della moglie. Il trasferimento a Prato nell’aprile 2007, amplificò il senso di isolamento. «Mara era spaesata e si disperava, aveva perso i suoi punti di riferimento: la poltrona, la scrivania, la finestra da cui ammirava lo stesso panorama. E anche i “cenci”, per lei, non erano più gli stessi. Non sapevo cosa fare se non restarle vicino e sussurrarle parole d’amore. Spesso non riuscivo a calmarla e mi sentivo impotente: era questo il dolore più lancinante». Gli ultimi giorni, i più terribili. «Non mangiava più, rifiutava di bere, non si lamentava, dormiva soltanto. Provavo a scuoterla e non reagiva. Chiamai il 118, arrivò l’ambulanza e la portarono via in un telo, senza nemmeno la barella. In quel momento capii che era finita».] «Non volevo che la mia Mara soffrisse ancora. Ma forse solo chi convive con una persona malata di Alzheimer può capire un gesto così estremo». La voce è ferma e s’incrina solo quando ricorda il pomeriggio del primo dicembre 2007. Mara Tani, consumata da 12 anni di malattia, era ricoverata all’ospedale di Prato quando arrivò la sentenza dei medici: ne avrà forse ancora per due ore, due giorni e, chissà, forse due mesi. «Non potevo lasciarla soffrire» «L’Alzheimer si era presa ormai mia moglie, che era ridotta a un mucchietto di carne e ossa: pesava appena 40 chili — racconta Bini — ma la prognosi dei dottori mi sconvolse. Non esitai: misi in una borsa lo spazzolino, due asciugamani e una pistola e presi un taxi per l’ospedale. Guardai mia moglie per l’ultima volta, le coprii con due asciugamani il viso e il petto perché non venissero deturpati dai colpi di pistola. Poi sparai. Uno, due, tre volte, finché capì che era finita». Bini parla veloce mentre le mani tormentano un fazzoletto: «Ho perso lei e ho perso tutto. Ma non potevo essere così egoista da lasciarla ancora soffrire. Sapevo di aver commesso un reato: per questo mi costituii». Il processo A distanza di quasi 8 anni, il 5 maggio scorso si è aperto il processo per omicidio volontario in corte d’Assise, a Firenze. Bini, difeso dall’avvocato Lapo Bechelli, non si è presentato in aula. Parlerà in una delle prossime udienze. «Mara è stato l’amore della mia vita — confessa — Era una donna solare e intelligente. Era lei ad amministrare lo stipendio e a organizzare l’esistenza della famiglia. Per 50 anni e 4 mesi, abbiamo condiviso progetti, gioie e dolori, finché l’Alzheimer non me l’ha portata via». La storia I primi segnali della malattia nel ‘95. Mara cominciò a perdere la memoria a 66 anni. «All’inizio erano dimenticanze da poco: il nome di un amico o quello di un utensile da cucina. Poi la situazione precipitò. Un giorno nel nostro appartamento di via Baracca decise di fare piazza pulita dei libri vecchi. Da un sacco spuntava un abbecedario del ‘36, cimelio della mia seconda elementare. Sapeva che di quel libro non mi ero mai liberato perché era il mio passato. Ma lei, confusa e avvilita, confessò di non ricordare nulla di quel testo. E ancora peggio andò quando accolse il parroco in salotto, svolgendo un rotolo di carta igienica». L’Alzheimer aveva già annientato la mente di Mara, cancellando volti e nomi dei figli. E divorò lentamente anche il suo corpo, fino alla sedia a rotelle. «Non volevo l’aiuto di nessuno, nemmeno dei figli. D’altra parte — racconta Bini — non potevo pretendere nulla dai miei ragazzi che erano assorbiti dal lavoro e dalle loro famiglie». Si rivolse ai servizi sociali («Ma l’assistente disse che sarebbe venuta un’ora la settimana come dama di compagnia») poi le badanti: «Tre ucraine accudirono mia moglie, ma nessuna sopportò il peso. Così ero io a lavarla, a imboccarle un cucchiaio di brodo e i bignè alla crema di cui era golosa». «Quel vuoto nel suo sguardo» Tutti i giorni facevano la spesa all’Esselunga in via di Novoli: l’ascensore non c’era e così toccava a lui trasportare la carrozzina, prendere Mara tra le braccia e scendere le due rampe di scale che li separavano dall’androne. Non c’era più orario per pranzo e cena, ma l’appuntamento era sempre in cucina. «Seduti al tavolo imboccavo Mara e spiluccavo la carne in scatola, mentre le raccontavo frammenti della nostra storia d’amore, il primo incontro, la nascita dei nostri figli. E lei, a volte, smetteva di guardare nel vuoto e si illuminava incrociando il mio sguardo. Erano attimi, poi tornava ad estraniarsi». Il ricovero e la fine Mara urlava, apparentemente senza motivo, si riconciliava con il mondo seduta alla poltrona, con i suoi «cenci»: «Stirava i pezzi di stoffa con le mani e li infilava in una borsa. Poi, la svuotava e ricominciava da capo». La vita correva ma nell’appartamento di via Baracca il tempo sembrava essersi fermato. «Non vedevo più gli amici, non giocavo a tennis, ma non mi pesava perché ogni gesto era dedicato a lei», racconta Vitangelo, milanese di nascita con un passato da campione di lotta greco romana, calciante Azzurro e la passione per karate e immersioni subacquee. La fatica non lo ha mai spaventato: sarà per l’infanzia trascorsa al seguito della madre, costretta a spostarsi per lavoro da Milano a Venezia fino a Salerno prima di approdare a Firenze. Ma non immaginava di dover affrontare quasi in totale solitudine la malattia della moglie. Il trasferimento a Prato nell’aprile 2007, amplificò il senso di isolamento. «Mara era spaesata e si disperava, aveva perso i suoi punti di riferimento: la poltrona, la scrivania, la finestra da cui ammirava lo stesso panorama. E anche i “cenci”, per lei, non erano più gli stessi. Non sapevo cosa fare se non restarle vicino e sussurrarle parole d’amore. Spesso non riuscivo a calmarla e mi sentivo impotente: era questo il dolore più lancinante». Gli ultimi giorni, i più terribili. «Non mangiava più, rifiutava di bere, non si lamentava, dormiva soltanto. Provavo a scuoterla e non reagiva. Chiamai il 118, arrivò l’ambulanza e la portarono via in un telo, senza nemmeno la barella. In quel momento capii che era finita».
02/12/2007-"SOFFRI TROPPO", e la uccide in ospedale-
-Continua la disperazione dei malati e dei parenti che chiedono la possibilità di una dolce morte - La legge e lo Stato assente abbandonano "all'orrore del fai da te in solitudine" le persone-



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